È il gentile e piano dialetto di Concordia (MO) che trionfa per la seconda volta nella ricca opera poetica di Luciano Prandini, il dialetto come lingua e come visione del mondo.
Come dice Milena Nicolini, esso “è in lui cellula fisica del sentire, vedere, pensare, non gli è posticcio e non lo sceglie come variante linguistica o esibizione intellettuale modaiola. Il suo dialetto ci arriva con tutta la forza sensuale che gli compete, portatore di una natura, di un mondo di cui non è solo limitrofo, adiacente, ma fisicamente, matericamente suo prodotto-frutto, suo testimone-impollinatore, suo esploratore odisséo”. Questa lingua di origine è il suo imprinting, come egli stesso dichiara nella sua precedente pubblicazione (Fulet, Folletti), la freccia dell’arco della sua giovinezza, connaturata alla realtà della natura, scagliata nel divenire del mondo.
Così questo lavoro è un ritorno all'Itaca del linguaggio, dei significati e del destino.
Non è il fanciullo che parla in questa delicata e devota poesia, attenta, ritmata come musica, incline allo scherzo e tuttavia piena di incanto. È la fiaba e l’archetipo dell’uomo che ha peregrinato di gente in gente, e una sera, seduto davanti all'orizzonte, indugia a rispolverare il diamante grezzo che ha serbato in seno per tutto il viaggio. Lo prende allora una letizia luminosa e paga… come una specie di sorriso.
L’uomo si accorge di aver camminato a spirale dalle origini alle origini, e ciò che tanto cercò per tutti i mondi, era sempre stato lì, fra le pieghe del suo mantello e delle sue mani.
Maria Lia Lotti